La realtà storica dietro al mito celtico della fondazione di Milano, ovvero come gli sconti alla Meravigli generano mostri.

di Mauro Ghirimoldi

Ormai da anni mi occupo (per studio e per passione) della storia milanese, e in particolare delle sue leggende e delle sue tradizioni; e, per l’appunto, in tutti questi anni mi sono ritrovato fra le mani una miriade di testi sull’argomento, che parlano dei misteri della città: ne vengono pubblicati diversi ogni anno, e il loro principale problema è quello che si copiano a vicenda in maniera spudorata, aggiungendo (se va bene) una o due novità; in casi più gravi, invece, si inventano tutto di sana pianta.

Errori

In questo modo, purtroppo, un errore qualsiasi (dalla nozione sbagliata per un refuso all’ipotesi palesemente erronea) viene perpetrato nel corso degli anni, in quanto nessuno degli autori in questione si prende la briga di indagare un minimo su ciò di cui scrive[1]. Questa totale noncuranza intrisa di sensazionalismo porta spesso e volentieri i lettori a voli pindarici ancora più grandi, o anche solo a un nozionismo basato su dati storici non veri.

Quello che riporto di seguito è dunque l’esempio più eclatante di questo processo. Qualche tempo fa, infatti, mi è capitato di parlare con un amico riguardo la leggenda della scrofa semilanuta, l’animale la cui storia è collegata alla fondazione di Milano, e che è sulla bocca di tutti coloro che, per fede o semplice interesse, hanno a che fare con le leggende milanesi e gli antichi dèi della città. Vediamo dunque come, parafrasando ironicamente Goya, gli sconti alla Meravigli[2] generino mostri.

 

Il principe e la scrofa

La vicenda, molto famosa, si può riassumere in poche righe nella versione in cui viene tramandata oggi: “La calata dei Galli, guidati dal loro capitano Belloveso. Scacciati i pastori e i contadini che abitavano quelle terre, i Galli si stabilirono nella zona. Anzi, Belloveso aveva addirittura l’intenzione di fondare una città. Prima di passare all’azione, decise di chiedere consiglio agli dèi sul da farsi: i sacerdoti consultarono gli oracoli, e sentenziarono che il progetto era realizzabile, ma solo a condizione che fosse stato scelto il luogo adatto: quello in cui avrebbe trovato a pascolare una porca con il dorso per metà coperto di lana. E da questa scrofa semilanuta la città avrebbe dovuto prendere il nome. Nel punto in cui l’animale fu avvisato, Belloveso tracciò il perimetro del nuovo insediamento, che fu poi battezzato con il nome di Mediolanum(da in medio lanae).”[1]

Versione originale

Desideroso di leggere la versione originale della storia, mi sono informato su quali fossero le fonti della leggenda, scoprendo che la vicenda di Belloveso è narrata da Livio; consultato il testo, sono però rimasto deluso. Ecco cosa riporta l’autore latino in proposito: “E siccome Ambigato era ormai avanti negli anni e desiderava alleviare il proprio regno da quell’eccesso di presenze, annunciò che avrebbe inviato Belloveso e Segoveso, i due intraprendenti figli di sua sorella, a trovare quelle sedi che gli dèi, per mezzo degli augurii, avrebbero loro indicato come appropriate. […] Poi, dopo aver sbaragliato in campo aperto gli Etruschi non lontano dal fiume Ticino, , [le truppe di Belloveso] considerarono questa coincidenza un segno beneaugurale del destino e fondarono in quel luogo una città che chiamarono Milano.” (Ab Urbe condita V 34)

E la scrofa?

Nessuna menzione della scrofa, dunque. Ma allora, da dove viene la leggenda? In effetti tutti i testi da me consultati riportano un particolare interessante, ovvero che la storia in questione risalirebbe al III-IV secolo d.C., e dunque sarebbe ben posteriore alla fondazione della città o anche solo al suo retaggio celtico. Su vari siti che ne parlano vengono citate come fonti del mito Claudiano, Sidonio Apollinare e Isidoro di Siviglia, ma solo quest’ultimo (inizio VII secolo) dice davvero qualcosa in merito[1], poche righe molto aride (ed è interessante notare che in questa versione Belloveso non compare): “Galli che erano afflitti da lotte intestine e continue controversie, andarono in Italia in cerca di nuovi luoghi ove insediarsi a seguito di profezie, trovando gli insediamenti con l’espulsione degli Etruschi, fondando Milano e altre città. Milano ricevette questo nome perché venne lì rinvenuta una scrofa semilanuta.” (Etymologiarum XV 57)

Mito di fondazione

Possono nascere diverse domande da tutto ciò: già il Fava ha dei dubbi in merito all’etimologia del nome, in quanto “mai i galli avrebbero potuto dare a una loro città un nome latino, derivato da una locuzione latina.”[2] E oltre a questo, perché la storia nasce proprio nella tarda Antichità, ex abrupto? Il Colombo già ne intuiva la soluzione[3]: si tratterebbe di un mito di fondazione creato a corte, all’epoca in cui Milano divenne capitale dell’Impero d’Occidente (286-402). Sarebbe infatti una ripresa della fondazione di Alba Longa narrata nel libro III dell’Eneide, allorquando l’eroe sogna che il figlio Ascanio troverà in una radura una scrofa bianca (alba) che ha appena dato alla luce trenta porcellini. Allo stesso modo Mediolanum sarebbe stata fondata dopo aver trovato una scrofa dal pelo semilungo (in medio lanae, appunto).

Immaginario neopagano

Nessun collegamento diretto con Belloveso, dunque, e di conseguenza nemmeno con la storia della Milano celtica: la scrofa è un mito squisitamente romano, creato per celebrare la nuova capitale attraverso un topos virgiliano. Hanno un bel dire, dunque, tutti coloro che uniscono le due storie di fondazione, o che fanno della scrofa un qualche spirito totemico della Milano celtica il cui ricordo è stato tramandato fino a oggi. È però giusto dire che, nell’immaginario popolare (e dei Neopagani nello specifico) l’animale ha avuto più successo del principe celta, quello nessuno può discuterlo.

La dea e il biancospino

A questo punto mi sembra doveroso fare una specifica sul biancospino: in quasi ogni libro moderno sui misteri di Milano che riporta la storia “congiunta” di Belloveso e della scrofa, quasi certamente troverete che l’animale stava in una radura con dei biancospini. Ma in realtà di un collegamento fra la dea e l’arbusto in questione non esiste alcuna traccia concreta: vediamo dunque la genesi di quest’altro errore. Il già citato Fava (forse il più “vecchio” degli attuali testi di misteri milanesi) riprende quasi alla lettera la leggenda del Colombo, ma la integra dicendo che a consultare gli oracoli furono sette confidenti di Belloveso, e che l’animale venne trovato in una radura disabitata circondata da fitte boscaglie. I vari altri libri pubblicati di seguito sull’argomento si spingono persino oltre: i confidenti sarebbero stati addirittura dei druidi[1], e le piante dei biancospini.

Via Andegari

Spesso si trova anche la nozione per la quale in centro a Milano ci sarebbe stata una “via dei Biancospini”[2], oggi via Andegari. Ma dunque, la nozione primaria della presenza di queste piante, da dove viene? A risolvere l’enigma in questione è, a fine XIX secolo, il Brentari nella sua guida alla toponomastica milanese, dicendo a riguardo: “Scrive il Venosta: ‘Il nome di questa via deriva dalla voce celtica che in italiano corrisponde al biancospino.’ Altri vorrebbe far derivare tal nome dalla voce dialettale andeghée, che significa gente all’antica, parrucconi. Notisi però che nel secolo XVI questa via si chiamava degli Undegardi; e che una famiglia Undegardi o Hondegardi, d’origine longobardica, viveva ancora a Milano nella prima metà di quel secolo. È probabile dunque che la voce Andegari altro non sia che una corruzione di Hondegardi.”[3]

Radici celtiche delle parole

Il testo del Venosta[1] è del 1867, e non riporta nulla di più di quanto cita il Brentari, dunque recuperare questa fantomatica parola celtica risulta difficoltoso; mi azzardo però a dire che, se la spiegazione sugli Hondegardi non risultasse già più che convincente, si può aggiungere che la reale conoscenza della lingua celtica insubre, nel XIX secolo, era di poca sostanza: ne è un bell’esempio il Saggio di Vocabolario della Gallia Cisalpina e Celtico di Pietro Monti (1856), dove in effetti si indagano le radici celtiche dei termini attraverso il dialetto locale, e rifacendosi a vocabolari dell’epoca di lingua gaelica e gallese[2].

Ipotesi

Una situazione, insomma, troppo confusionaria per avere un minimo di attendibilità, e spesso condotta più dal desiderio di trovare ciò che si voleva, che da un sano spirito di ricerca storica (e questo purtroppo vale per molti studi sui Celti, anche posteriori all’Ottocento). Non solo: l’errata ipotesi del Venosta ha indotto molti studiosi dilettanti a ritenere che il medhelan si trovasse appunto nei pressi della Scala, mentre è più probabile che esso (il “tempio di Atena” citato da Polibio) si trovasse in piazza Duomo, dunque adiacente all’area dei ritrovamenti celtici[3] (ma ciò resta comunque una mera ipotesi purtroppo non verificabile).

La superficialità e la ricerca

Tirando le somme, con la storia della scrofa semilanuta ci ritroviamo davanti a un falso mito che ha letteralmente travalicato i secoli, che si è ingrossato (per pura cattiva informazione) con altri errori fino a raggiungere il suo stato attuale, quello di una leggenda sulla bocca di tutti, e tramandata con continuità, che però pretende di avere solide basi storico-religiose (e risultare per questo “più vera” di tante altre), quando in realtà nasce solo dall’illecito accorpamento di due miti di fondazione di epoche molto diverse. E certo, se di per sé e per proprio credo continua a non esserci nulla di male nel ritenere che le due storie possano andare assieme, proporle come le reali tradizioni della Milano celtica (o, ancora peggio, del celtismo tout court, come nel caso del biancospino) continua a essere sbagliato,

Fate ricerche

indica una conoscenza molto superficiale dell’argomento, e può portare a frasi allucinanti come «In quest’area non sono stati trovati reperti celtici, dunque doveva esserci il recinto sacro con gli alberi». Perché sì, mi è capitato di leggere anche questo. Quindi il mio consiglio è: quando trovate riportata da qualche parte una presunta leggenda o tradizione che non indica nessuna fonte, o che nomina autori difficilmente reperibili senza citarli, o che semplicemente vi fa sorgere qualche dubbio, diffidate per principio e andate a informarvi su testi seri (sono abbastanza facili da riconoscere). Se la questione vi interessa, usare del tempo per fare una ricerca seria non è mai un male, soprattutto quando si possono portare alla luce, come in questo caso, tradizioni dimenticate per davvero.


Note

[1] Felice Venosta, Milano e le sue vie. Studi storici, Milano 1867, volume I, p. 11.

[2] Pur tralasciando che il gallese e il gaelico sono lingue celtiche di due rami ben diversi (il primo Celtico-P, il secondo Celtico-Q), il gallico (e quindi la sua variante insubre, di cui però sappiamo poco o nulla a causa di una cronica mancanza di testimonianze) è Celtico-P, ma non è affine al gallese più di quanto non lo siano fra loro, ad esempio, l’italiano e il francese.

[3] Donatella Caporusso – Maria Teresa Donati – Sara Masseroli – The Tibiletti, Immagini di Mediolanum. Archeologia e storia di Milano dal V secolo a.C. al V secolo d.C., Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche di Milano, Truccazzano 2007, pp. 21-26; ricordo qui peraltro che gli scavi sotto al Duomo hanno riportato alla luce le due vecchie basiliche e il battistero, ma nessuna traccia di templi.


Note

[1] Ricordo qui che non abbiamo traccia alcuna di druidismo nell’Italia settentrionale, come del resto in nessuna area celtica al di fuori di Irlanda, Gran Bretagna e Francia centro-settentrionale.

[2] Da non confondere con l’omonima via nel quartiere Giambellino, a diversi km dal centro: qui, infatti, molte vie hanno nomi di piante, in quanto l’intera zona venne edificata solo negli Anni ’70-’80 del secolo scorso, in un’area che prima era di aperta campagna (il centro abitato più vicino era Lorenteggio).

[3] Ottone Brentari, Guida alla toponomastica milanese di fine Ottocento, Meravigli (Milano 2008), 19; il testo originale è del 1889.


Note

[1] In effetti, credo che il sito che riportava questi tre nomi (di cui non riporto il link) abbia semplicemente indicato degli autori latini difficili da reperire in traduzione, di modo da aggiungere qualche nome non consultabile dalla maggior parte dei lettori per dare maggior risalto alla cosa. Per Claudiano: http://www.intratext.com/Catalogo/Autori/AUT78.HTM; per Sidonio: http://www.documentacatholicaomnia.eu/30_10_0430-0489-_Sidonius_Apollinaris_Episcopus.html

[2] Franco Fava, Milano magica e fantastica, Meravigli (Milano 2007), pp. 120-121.

[3] A. Colombo, Ibid., p. 17.


[1] Alessandro Colombo, Milano romana, Meravigli (Vimercate 1994), pp. 18-19; il testo originale è del 1928.


Note

[1] Per fare un esempio, in uno di questi testi esiste l’ipotesi per la quale la chiesa di San Giovanni in Conca sarebbe sorta sopra un mitreo, in quanto dedicata al Battista in ricordo di una fonte battesimale mitraica; gli autori sembrano ignorare totalmente che essa era invece dedicata all’Evangelista (di cui abbiamo ancora la statua originale proveniente dal frontone), segno questo, a parer mio, che essi hanno coniato questa ipotesi senza la minima documentazione in merito (cfr. Ippolito E. Ferrario – Gianluca Padovan, Milano sotterranea e misteriosa, Mursia, Milano 2008, pp. 91-92).

[2] Per tutti i non lombardi, la Libreria Milanese o Meravigli è una casa editrice (con sede e vendita al pubblico appunto in via Meravigli 18) che si occupa di pubblicare (e ripubblicare in versioni anastatiche) testi su Milano e la Lombardia, spaziando dalla storia, al folklore, alla cucina, alla grammatica dialettale, al turismo.