Il fascino che il Buddhismo esercita su tutti i cercatori spirituali.

di Salvatore Fortunato

Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per rimanere

Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama

Dukkha – la sofferenza

Esiste una religione che è anche filosofia e che è anche pratica spirituale: il Buddhismo. Esso si pone prima di tutto come farmaco, esattamente come l’Epicureismo antico ed il suo tetrafarmaco[1].  Questo può spiegare la grandissima attrattiva che il Buddhismo suscita in tutto il mondo neopagano (e su tutti i cercatori spirituali in genere). Se c’è qualcosa che unisce tutti gli esseri senzienti (per usare un termine adatto), è infatti la sofferenza, il dolore. Questo è sotto gli occhi di tutti e dall’alba dei tempi i saggi di tutto il mondo si interrogano sulla sua origine e sul modo di farla cessare.

Cristianesimo

Per l’antica filosofia occidentale, in genere, è l’attaccamento alla materia che genera sofferenza, l’elevazione spirituale di contro la risana. Ma le antiche filosofie, che spesso tenevano fuori dalle loro grazie la stragrande maggioranza delle masse affamate, ha dovuto cedere il passo alla montante marea del nuovo messaggio: il cristianesimo. Anche il cristianesimo infatti si interroga sul dolore e, addirittura, lo umanizza, gli da un volto che diventa un archetipo ed un esempio per ogni fedele.

Salvazione

A differenza delle complesse filosofie precedenti però il messaggio è chiaro e diretto e va a colmare uno dei più antichi bisogni dell’essere umano cioè il bisogno di essere salvati. La salvazione è un grandissimo tema portato alla ribalta proprio dal cristianesimo. Per la filosofia pagana infatti era l’uomo che doveva elevarsi al Divino. Per il cristiano è un Dio che si fa uomo e lo salva e lo fa proprio attraverso la sofferenza. È la croce infatti il simbolo della nuova fede ed indicherà da allora in poi che “ognuno ha la sua croce”, ognuno ha le sue sofferenze, che accetta come Cristo ha accettato le sue sul patibolo.

Una vera medicina

È un messaggio semplice che, se non cura, almeno addolcisce l’animo umano. Ho sempre visto infatti il Cristianesimo, più che un farmaco, una sorta di caramella spirituale verso la sofferenza. Soffri? “Ecco, mangia un po’ di Gesù e tutto è più dolce”. Il Buddhismo invece si propone come vera e propria medicina. Si indica un metodo seguito ad un’analisi razionale. Ciò che colpisce in particolare è che questo metodo sembra funzionare! È quello che io chiamo “il fascino del bonzo”. Il monaco, colui che vive il dharma intensamente, dedicandovi la propria vita appare sereno, tranquillo, raggiante. La sua testa calva ed i suoi abiti particolari suscitano un non so che di luminoso.

Paganesimo defilosofizzato

Forse è questo il segreto del fascino di questa dottrina. Ho infatti visto “nostre” sacerdotesse (di diverse tradizioni), struggersi per il Dharma (Dhammain Pali), prenderne come delle gazze ladre, pezzi di filosofia ed usarne gli oggetti di culto. Penso che sia altrettanto normale per un tipo spiritualmente inquieto, viste queste cose, rivolgersi direttamente alla fonte. Le vie neopagane infatti non si pongono assolutamente nessun problema verso i grandi interrogativi dell’essere umano perché sono per la maggior parte vie “defilosofizzate”. Questo naturalmente vale anche per la sofferenza. Nella Wicca si ha una concezione gnoseologica del dolore ma non ci sono certo trattati che affrontano il tema né esistono discussioni in merito. Spesso mi è capitato di parlare con i “colleghi” e la risposta più comune a riguardo è: “queste cose le lasciamo ad altri …”. Si, ma la riflessione sulla sofferenza? “ma sai, è un percorso pratico, certe cose le lasciamo ad altri …”.

Anicca – l’impermanenza

“Tutto scorre” come si suol dir, attribuendo la massima ad Eraclito, che probabilmente non la pronunciò mai. Questo è tutto ciò che un neopagano può dire riguardo ad un altro tema fondamentale dell’essere umano. Perché l’essere non è stabile? perché tutta muta la propria forma? Che cos’è il divenire? A cosa porta? In genere un neopagano, se proprio vuole discutere, va a pescare concetti teosofici che a sua volta sono stati estrapolati dalle filosofie dell’oriente, Buddhismo compreso. Nessuno si aspetterebbe un trattato di ontologia, ma sarebbe stato interessante partire da posizioni come quelle della “durata del tempo” di Bergson, ad esempio.

La pace dal non attaccamento

Perché è importante speculare? Semplice perché la teoria aiuta la pratica e molto spesso la precede. Se sai come porti verso il divenire, allora saprai affrontare i cambiamenti della vita e saprai dare consiglio su come fare. Ma per quello ormai c’è lo psicologo che ti dice che sotto sotto te piace soffrì … di la verità Mr. Grey! Per la dottrina buddhista invece la speculazione sul divenire è utile a giungere alla conclusione che la pace deriva dal non attaccamento. Tutta la realtà fenomenica infatti sarebbe un insieme di aggregati che prima o poi si dissolveranno. “Proprio come una goccia di rugiada in cima a un filo d’erba si dissolve rapidamente al levar del sole e non ne rimane più nulla, così la vita degli uomini, come una goccia di rugiada, è di breve durata ed effimera[2] .

Meditazione

Anche l’uomo è quindi un insieme di aggregati. I così detti cinque Khandha. Prima o poi questi aggregati si scioglieranno come neve al sole e di quello che noi chiamiamo Io, non rimarrà nulla. Ecco che l’attaccamento verso ciò che è impermanente, mutevole, destinato a dissolversi, reca sofferenza. La presa di coscienza del carattere impermanente di tutte le realtà fenomeniche e della propria individualità, è lo scopo della disciplina mentale, cioè della famosa meditazione buddhista, per raggiungere la liberazione. Moltissimi neopagani integrano la meditazione buddhista nelle loro pratiche, perché? Probabilmente perché l’incantesimo da solo non è in grado di donare quella serenità della mente di cui tutti oggi abbiamo bisogno. Così siamo Buddhisti di giorno, Pagani di notte e Hindu nei week end … o magari Cristiani, in fondo “Parigi val bene una messa.” Si, ma la riflessione sul divenire? “ma sai, è un percorso pratico, certe cose le lasciamo ad altri …”.

Anattā – il Non Sé

Secondo l’insegnamento di Buddha, non esiste né atman individuale, né atman universale. Ricordo che l’atman è un concetto vedico che indica il soffio vitale, il concetto che più spesso viene indicato con il Sé e che si potrebbe accostare a quello di Anima individuale. Ora secondo la filosofia Hindu vi è una sostanziale equivalenza tra l’atman e il Brahman cioè l’atman universale, il Divino. Questa teologia sottolinea l’immanenza del divino nell’uomo e quindi scopre la sostanziale divinità insita nell’uomo.

Né Io né Sé

Un concetto molto simile a quello della misteriosofia occidentale dopo l’orfismo. Il divino non può quindi essere concepito come altro da Sé. « Chiunque adori una divinità diversa dall’Immensità, pensando ‘Essa è uno, io sono un altro’, non sa. È come un capo di bestiame per gli dèi. »[3]. Ora il Buddhismo annienta questa concezione teologica. Come non vi è alcun Io (che in quanto aggregazione è impermanente) così non vi è alcun Sé né personale né universale. Questo perché tutto è impermanente e quindi non può esistere alcun “soggetto” sia in senso fisico che metafisico.

Senza anima

Questa dottrina è veramente fondamentale: se non la si capisce è impossibile una vera conoscenza del Buddhismo perché l’Anatta (Anatman in sanscrito) è forse la sola dottrina specificatamente Buddhista. Tutto, per il Dharma, è un flusso senza un’esistenza indipendente.  Queste nozioni sono alquanto shockanti per un occidentale abituato a pensare ad ogni essere umano con una propria anima individuale. Pensare ad una persona senza anima è allibente eppure la riflessione buddhista è sempre soteriologica, mai pura speculazione teoretica.

Attaccamento

Ovviamente nel neopaganesimo non c’è né pura speculazione né un intento soteriologico per cui l’anima … C’è? Non c’è? Cos’è? Boh! Ci si affida a Platone, il padre dell’Anima ma poi non ci piace perché la separa dal corpo, allora ci affidiamo alla teoria olistica di derivazione ebraica ma con una spruzzatina di teosofia che non guasta mai … Perché nel Buddhismo si riflette sulla mancanza di Anima? Perché appunto il suo intento è soteriologico per cui si punta a salvare l’uomo, si punta alla liberazione. L’idea di Io, di anima, di Sé è falsa e immaginaria, non corrisponde a nulla nella realtà e , anzi, è la causa di pensieri pericolosi di “me” e di “mio”, di desideri egoistici e insaziabili, dell’attaccamento, dell’odio e della malevolenza, dei concetti di orgoglio ed egoismo.

Liberare il mondo

È  la fonte di tutte le difficoltà del mondo, dai conflitti personali fino alle guerre fra le nazioni. Togliendo tutto ciò che è personale il Buddha pensa di liberare il mondo. Sarà per questo che ogni ricercatore spirituale cade prima o poi in questa filosofia. Chi non vuole essere liberato? La stragrande maggioranza dei neopagani sono spiritualmente inquieti come biglie di metallo sul pavimento, pronti ad essere attratti dalla calamita a gambe incrociate.

A noi cosa rimane?

Credo che il neopaganesimo sia veramente e nuovamente pagano, nel senso che non riesce a dare delle risposte alle inquietudini dell’uomo, ma con una differenza rispetto al passato. In passato ci furono circoli culturali aperti alla riflessione e i cui frutti tutti mangiano, ancora oggi, in Occidente. Oggi non vi è più riflessione, per cui da una parte servono continue stampelle (dal Buddhismo, dallo Yoga, dalle tradizioni sciamaniche, dalla Qabbalah masticata male, un po’ da tutto … purché esotico!), dall’altra non ci si pone nemmeno il problema, tanto per chi vuole andarsene la porta è aperta. E la riflessione sull’Anima? “ma sai, è un percorso pratico, certe cose le lasciamo ad altri …”. Si, ma a noi cosa rimane!?


[1]La filosofia antica infatti non era pura chiacchiera come è oggi, ma era una vera e propria pratica spirituale che “adiuvava” il culto. N.d.A.

[2] Ariguttaro-Nikaya, VII, 70)

[3] (da Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, I, 4, 10; citato in Alain Daniélou, Miti e dèi dell’India, traduzione di Verena Hefti, BUR, 2008)